“Terrible Truth” Intervista ai registi Angelo e Giuseppe Capasso

Storia asciutta, essenziale, dai caratteri ben definiti impreziosita dalla voce fuoricampo quanto mai azzeccata, essenziale e mai invadente; aspetti che ne esaltano il tratto registico. “Terrible truth” di Angelo & Giuseppe Capasso è stato presentato all’interno del Festival “L’altro Corto” dedicato al cinema breve organizzato dall’associazione culturale “Punto Com”. E’ il triangolo amoroso che coinvolge tre amici, che tanto ricorda François Truffaut. alla “Jules e Jim” ma rivisto in chiave noir dalle forti tinte pulp, che si alterna al crimine di cui spesso è un lato inconciliabile, attravero pause narrative che intreccianoossessioni, paranoie, e squilibri psicologici legati in età infantile. La fotografia è di Mirco Sgarzi ed il tocco elegante e sensuale delle musiche è del musicista Luca Toller, la sceneggiatura degli stessi fratelli Capasso, e forse è proprio questa la caratteristica migliore del film. Fin dai primi fotogrammi si intuisce l’abilità registica sia nei tecnicismi che nella professionalità cosa ravvisabile nella minuziosità dei flashback. I personaggi sono ben caratterizzati e con l’incalzare della narrazione prendono forma e vengono arricchiti di maggiore sfumature che danno spessore al tessuto attoriale. Lo sviluppo della narrazione è in continuo divenire e ciò fa in modo che lo stridore tra le premesse della storia e la sua conclusione avvenga senza alcun tipo di forzatura narrativa. L’uso delle maschere enfatizzano la caratterizzazione dei personaggi che ben si armonizzano con soluzioni scenografiche intriganti. Un corto alla Lupin che non si perde in grinze narrative ma cattura l’attenzione fotogramma dopo fotogramma…

E’ un corto senza sbavature ed incisivo arricchito da soluzioni visive spesso bizzarre che presentano un’ ironia sottile e grottesca alla Tarantino. E’ stato lui ad ispirarvi?
È di certo un dato di fatto che ogni autore venga influenzato, più o meno consapevolmente, da quello che è il suo bagaglio culturale. Tarantino si trova sicuramente tra i cineasti che apprezziamo molto, tuttavia non possiamo dire di esserci ispirati a lui per questo lavoro. È probabilmente nella scelta ritmica del film e nell’uso di un linguaggio abbastanza “colorito” che emerge, a nostro avviso, la similitudine più palese con la cinematografia Tarantiniana, ma il tutto si ferma qui! L’elemento che distacca maggiormente “Terrible truth” da ogni accostamento a Tarantino sta nella scelta del personaggio. Le parole “piccanti” che talvolta usano i nostri personaggi e le vicende che vivono, come un involucro, nascondono il fondamentale particolare che li differenzia. La caratteristica che, in linea di massima, accomuna quasi tutti i personaggi Tarantiniani è il loro essere “positivi”. Uma Thurman in “Kill Bill”, Brad Pitt in “Bastardi senza Gloria”, Bruce Willis in Pulp Fiction e Harvey Keitel ne’ “Le Iene” sono tutti (anche se si tratta di criminali malfattori) dei veri e propri eroi che lottano (seppur con mezzi poco leciti) per conquistare la loro “nobile” esigenza drammatica. L’interprete di “Terrible truth” invece (ed in generale quelli dei nostri lavori precedenti) sono dei veri e propri perdenti, i classici antieroi che seguono durante il loro percorso la via sbagliata e miseramente falliscono. Eddie, suo malgrado, è un personaggio negativo e senza possibilità di riscatto. Da questo punto di vista crediamo che i nostri personaggi siano più accostabili a quelli di Scorsese per quanto riguarda il cinema e a quelli di Bukowski per la letteratura, autori tra l’altro dai quali Tarantino ha attinto molto.

Avvezzi all’horror, vi siete spinti verso il noir che trascina con se il pulp, come avete costruito il plot?
L’orrore che ci interessa in particolar modo rappresentare non è quello dei fiumi di sangue e budella spappolate che si vede sovente nelle produzioni cinematografiche di genere “Splatter” bensì un orrore psicologico, tutto interno ai personaggi. Il Noir si presta molto a questo scopo. D’altra parte è uno di quei generi che, a differenza di altri, offre una maggiore possibilità di lavorare con l’intreccio e questo è un aspetto che noi curiamo molto. I nostri plot sono sempre molto costruiti, ci piace pianificare tutto preventivamente e lavoriamo molto sullo storyboard. La sceneggiatura prima di arrivare sul set passa su di un vero e proprio grafico atto a tenere sotto controllo il ritmo generale del film e a gestirlo settorialmente in relazione a quello che è successo prima e ciò che accadrà dopo della scena in questione. Lavorare in questo modo ci da’ una sorta di garanzia (non assoluta ovviamente) di non avere brutte sorprese sul set … poi si sa, nelle produzioni indipendenti l’ombra dell’imprevisto è sempre in agguato. C’è chi non adotta questo metodo lasciando più spazio all’improvvisazione sul set, noi invece partiamo dal presupposto che è proprio grazie ad una buona pianificazione preventiva che si ha più campo libero per eventuali interventi non previsti dallo script.Più si conosce bene il percorso da seguire e il punto di arrivo, tanto più sarà difficile smarrirsi qualora si decida di lasciare la via maestra per un sentiero parallelo.Il discorso cambia però sul lavoro con gli attori. In questo caso, per evitare di perdere spontaneità, non facciamo molte prove e non diamo troppe indicazioni se non quelle strettamente necessarie. A noi interessa far presente all’attore solo quello che vogliamo suscitare in quella determinata scena e poi sarà lui a fare il resto. Ovviamente non esiste una regola assoluta sul come fare in questi casi, quella migliore è di solito la più congeniale ad ogni singolo regista. Per quanto riguarda invece l’alone Pulp presente nel film, lo abbiamo marcato solo perché ci è sembrato particolarmente adatto al contesto nel quale sono calati i personaggi e la storia.

La fotografia ha un tratto ben definito, gioca molto sui chiaroscuri che vengono alternati a colori molto forti, come siete riusciti a dare un tocco così naturale e al contempo veritiero all’imprinting del corto?
Per noi la fotografia gioca un ruolo fondamentale nella costruzione di un film e non solo sul piano prettamente estetico/compositivo ma anche su quello evocativo. Il nostro è un film crudo, parla di ossessioni, paranoie, rapporti mal gestiti tra genitori e figli in età infantile. Per raccontare cose del genere ci è sembrato più opportuno usare una fotografia dal taglio netto e deciso. Fondamentale a tale fine è stato l’apporto del nostro direttore della fotografia Mirco Sgarzi che ha saputo interpretare al meglio le nostre idee, condirle con il suo tocco personale e riportarle sullo schermo. Ovviamente una scelta fotografica del genere se mal gestita può portare ad un allontanamento da parte dello spettatore dandogli la sensazione di assistere ad una messa in scena poco veritiera e artefatta, ma fortunatamente, fin dalle prime proiezioni abbiamo notato che lo spettatore si integra abbastanza agevolmente nel mood della storia.

Girato in Mini DV in locations napoletane, quanto tempo hanno richiesto le riprese e quali sono state le difficoltà nell’usare un mezzo di così larga diffusione ma con un risultato così ben riuscito?
Le riprese ci hanno portato via complessivamente dieci giorni. Avendo girato in moltissime location, molto tempo è stato impiegato per spostare tutta la troupe e l’attrezzatura da un posto all’altro. In determinate scene del film vediamo muoversi i personaggi all’interno di quello che sembra essere un unico ambiente, ma in realtà ne sono diversi. In particolare la scena della rapina alla villa è stata girata in quattro location differenti e … ahinoi anche abbastanza distanti tra loro. Fortunatamente però, avendo collaborato con un cast artistico/tecnico molto professionale e competente, si recuperava in fretta il tempo perso senza sforare troppo rispetto al piano di lavorazione.Per quanto riguarda invece l’utilizzo di un formato come il Mini DV la scelta è stata dettata essenzialmente dal budget a disposizione. Essendo limitate le nostre finanze abbiamo deciso di optare per il mezzo più economico cercando però di sfruttare al massimo le sue potenzialità. Abbiamo quindi montato davanti alla telecamera delle ottiche fotografiche che ci hanno dato modo di gestire al meglio la profondità di campo dando al prodotto finito una resa più simile a quella cinematografica e distante da quell’effetto “filmino delle vacanze” che si ha solitamente quando si gira in digitale. In tal senso anche la postproduzione video, curata da Giuseppe Petruzzellis (montaggio e color correction) è stata fondamentale. Abbiamo sempre lavorato a distanza essendo lui di Ferrara e noi di Napoli. Ci scambiavamo materiale ed opinioni tramite internet e telefono per cui i tempi si sono allungati notevolmente, tuttavia questo confronto a distanza è stata un’esperienza bella e costruttiva.

Non credete che l’audio ritoccato (peccato!) in post produzione toglie un po’di spontaneità al cortometraggio costringendolo in una struttura forzatamente artefatta?
La scelta di doppiare l’intero film è stata fatta principalmente tenendo conto di un fattore pratico, ovvero la mancanza di problemi e di perdite di tempo sul set legate alla presa diretta.
Essendo “Terrible Truth” un film molto dialogato, difficilmente saremmo riusciti a chiuderlo in dieci giorni (che è già un tempo limite per un cortometraggio) se avessimo registrato l’audio durante le riprese. Sicuramente le due tecniche a confronto hanno un effetto diverso sul prodotto finale ma, partendo anche dal presupposto che in Italia si è abituati a guardare quasi solo ed esclusivamente film stranieri doppiati visto che ogni anno di quelli italiani (e quindi in presa diretta) se ne producono soltanto poche decine (purtroppo!), non ci siamo posti il problema più di tanto.

Intervista a cura di Paola Tarasco

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